In India, secondo quanto riportato nel Sūtra Gṛhya, un corpo, quando muore, deve essere bruciato per consacrare il saṃskāra. Questo è l’ultimo sacramento che segna la fine della vita del corpo. Con la cremazione, che deve essere effettuata entro 24 ore dalla morte, il corpo si trasforma in cenere. L’anima si libera e si purifica, preparandosi alla nuova rinascita.
La reincarnazione, per noi occidentali, rappresenta una speranza: immaginiamo che, dopo la morte, si possa rinascere, risorgere. Gli induisti, invece, vedono le infinite rinascite come una prigione, un ciclo eterno da cui fuggire. Lo scopo ultimo della vita è liberarsi da questo fardello, permettendo all’ātman, l’anima individuale, di unirsi per sempre a quella universale, come una goccia che si dissolve nell’oceano.
L’anima, per sua natura, continua a incarnarsi in nuove vite (non necessariamente umane). È il karma, rappresentato come il risultato delle azioni di una vita, a determinare la condizione delle rinascite future. Una delle soluzioni per liberarsi dal ciclo è morire ed essere cremati a Varanasi. Questa città santa, situata lungo il Gange, è considerata un luogo dove il saṃsāra – il ciclo di nascita-morte-rinascita – viene spezzato, garantendo la liberazione.
La salma, avvolta in un sudario colorato – rosso per le donne, arancione o bianco per gli uomini – viene denudata e immersa nelle acque sacre del Gange. Il corpo viene lavato tra preghiere e canti che risuonano nell’aria, misti al fruscio delle acque e al crepitio delle pire accese. Cosparso di ghee (burro chiarificato) e avvolto in una stoffa brillante, il corpo viene portato in processione lungo le strette strade di Varanasi. L’atmosfera è carica di spiritualità: i tamburi battono un ritmo solenne, i canti si alzano nel crepuscolo, e l’odore acre del fumo si mescola all’aroma di incenso e sandalo.
Giunti sulla riva del fiume, il corpo viene deposto su una pira di legno, solitamente composta da 300 chili di tronchi. Gli uomini sono disposti a faccia in su, le donne a faccia in giù. Prima che il fuoco venga acceso, il figlio maggiore del defunto, avvolto in un dhoti bianco e con la testa rasata in segno di lutto, compie un giro rituale intorno alla pira, portando una fiamma accesa.
Attorno al rogo vengono deposte offerte come legno di sandalo, foglie di mango e canfora, i cui profumi avvolgono il luogo, quasi a lenire il dolore. L’intera scena, avvolta da un cielo che si colora di rosso al tramonto, è un misto di serenità e caos: il fumo si alza in colonne dense, mentre i sacerdoti intonano antiche formule.
Le ceneri, dopo che il corpo è consumato completamente, vengono raccolte e immerse nel Gange, il fiume sacro che si muove lento, portando via i resti e, con essi, i vincoli terreni dell’anima.
Non tutti necessitano di cremazione. Bambini sotto i due anni, donne gravide, sadhu (asceti coperti di cenere), persone affette da malattie come la lebbra o il vaiolo, vittime di violenze o morse da serpenti, vengono sepolti o gettati nel fiume, con pesi legati ai loro corpi.
Il costo della legna, elemento essenziale per il rito, è elevato e simbolo di status sociale. Alcune famiglie, non potendo permettersi la quantità necessaria, lasciano corpi parzialmente combusti, i cui resti galleggiano nel fiume, tra fiori di loto, lumi accesi e ceneri. Giovani ragazzi, armati di reti, setacciano l’acqua alla ricerca di oro e gioielli indossati dai defunti durante il rogo.
Per arginare l’inquinamento, si allevano tartarughe carnivore appositamente addestrate a nutrirsi dei resti umani: silenziose e invisibili, consumano circa una libbra di carne al giorno, contribuendo alla pulizia del Gange.
Al tramonto, il panorama di Varanasi è una visione indimenticabile: i ghat affollati di gente, le pire ardenti, il suono dei canti che si perdono nell’eco del fiume, e il cielo, tinto di arancione e viola, che sembra vegliare su questo rito eterno.
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